“SE SEI UBRIACA SEI IN PARTE RESPONSABILE DELLO STUPRO”. Campagna pubblicitaria del comune di Ferrara contro la violenza sessuale sulle donne. Il comune si corregge e dice che questo rappresenta il pensiero del 15% degli italiani.
Non può essere che al peggio non ci sia mai fine. Quando il peggio diventa la MERDA assoluta, una fine deve esserci. Perché essere donna non può e non deve significare che ci dobbiamo sorbire tutte queste stronzo-frasi da dementi che sono caduti dal seggiolone da piccoli o che da ‘sto seggiolone non sono mai scesi. Che non può essere che se mi ubriaco chiunque si possa sentire in diritto di strapparmi le mutande, prendermi a pugni in faccia, ficcarmi il pene a forza nella vagina contro la mia volontà e poi dirmi che me la sono cercata. Lo capite anche voi che questo pensiero può essere il parto (dal culo ovvio) di una mente malata e perversa? Lo capite anche voi le mazzate che si merita dritte sulle gengive questo post? Lo capite, sì, che essere donna nel 2020 ci fa ancora sentire streghe del Medioevo?
E allora, con linguaggi del cazzo come in questo post, non c’è bisogno di scomodare la sociologia o la psicologia per indagare cosa ci sia dietro le menti perverse di chi scrive certe cose. Non è servito a niente in allora lo slogan “Io sono mia e mi gestisco io”. Con certe persone, all’unisono, lo slogan di oggi è : “MAVAFFANCULOVAAA’!!!”

Ci sono bimbi che nascono dalla forza delle pance. I miei sono nati dalla forza del desiderio, grosso come un megacosmofrizzilaccherebadabum!!
Dietro una grande donna c’è un Angelo Custode che sospira e alza gli occhi al cielo. E aspetta. Aspetta con quella pazienza unica che è tipica solo degli angeli custodi.
Quando è stato dipinto questo quadro, i miei bimbi erano ancora solo una pennellata di desiderio, appunto. Un parto che non aveva la certezza di una scadenza tipo a tot mesi si forma la testa, a tot mesi si muove e poi, Bam! Preciso come un treno Italo a Porta Nuova, arriva al binario con lo scarto di qualche quarto d’ora di ritardo. Il mio parto mentale non aveva i tempi segnati da eventi certi. Il tempo era dilatato in microparticelle nane che si espandevano nell’entropia dell’universo e l’attesa non si placava nemmeno a mezzanotte, quando la luna sembra più alta nel cielo.
Nel periodo dell’”attesa” la realtà sembrava deformata da un Io che aspettava di espandersi in un’altra dimensione, più piena, più grande, un’accoglienza estrema verso una penisola fatta di profumi di pelle e pannolini. Quelli puliti, ovvio.
“Stato interessante”, si chiama. Anche il mio lo è stato. Interessantissimo, fatto di “E voi figli niente? Come mai? Ma il problema è tuo o di tuo marito”? Perché volere adottare dei bimbi dovrebbe essere un problema? Le racconto una storia, signora. C’è una leggenda nigeriana che narra che le mamme vanno sotto un albero a prendere i loro bambini, che non è che sia tanto meno folk della nostra sotto i cavoli, eh! Volano nel cielo e attraverso le foreste, portandosi dietro tutto il loro mondo e sognando di arrivare sotto un baobad, per scorticare quella corteccia dura che è stato l’elemento separatore tra loro e il loro bambino e se lo portano a casa dicendosi un “per sempre” che è l’unica rappresentazione materiale del senso di infinito che ti insegnano a matematica a scuola e non c’hai mai capito un cazzo di che volesse significare.
Ma ora lo sai. E ora ce l’hai tatuato nel cervello. Avrai capito che significa non avere più il tempo di pensare al tuo Io perché il tuo Io è fatto di mammaiopipìììì-pappaiofameeee-mammaiobibbi-MammaMammaMammaaaaaaaa (così, gridi lanciati nei corridoi inutilmente, solo per sapere se tu rispondi Sissignoreamoremio-eccomi-chec’è). Avrai capito che le cagate in solitaria sono un ricordo romantico dei tempi che furono.
Dedicato a tutte le persone in attesa di un bimbo, che debbano andare a prenderlo sotto un cavolo, sotto un baobad o Culandia.
(il quadro è opera di Giulia Cavallo).

Primo giorno di asilo, primo grande distacco. Auguri piccoli miei, non piangete che c’è già mamma che ci pensa.
Tengo salde le manine, state tranquilli, anche se non sono lì fisicamente.
Io non ho partorito i miei bimbi, non sapevo cosa significasse separare da sé fisicamente un corpicino. Oggi ho provato quella sensazione fisica che punta allo stomaco, passando dritto da coronarie e cuore.
Ricorderò a me stessa per sempre le parole di stamattina di mia sorella: “Giorno importantissimo e ricordo che resterà per sempre nel vostro cuore. E anche quando verrà il giorno in cui ci saranno prima gli amici, la morosa, e cento altre cose, e anche quando ti diranno “lasciami in pace”, tu sarai sempre quella a cui sorridevano felici quando andava a riprenderli 🥰”.
Ora vado a piangere, che è già tardi.
Buona strada, piccoli amori miei. Mamma e papà sono nel vostro cuoricino.
P. S. papà il post lo leggerà appena avrà consumato tutti i clinex.

VENGONO IN ITALIA E CI PORTANO IL CORONA VIRUS.

Vengono in Italia e ci rubano il lavoro e le donne e adesso ci portano anche il Corona-virus“.

Queste manine sono le manine dei miei bimbi. Mani piccole e forti. Forti, perché hanno dovuto stringere forte, insieme a me, un sogno, quello dell’ADOZIONE.

Certi bimbi nascono dalle pance, o come dice Alessandro, PAN-CIIIIE. Altri, nascono dal cuore e dalla mente. I nostri sono il parto di un cammino in mezzo al fiume di una vita, in cui c’era solo lo spazio di un passo tra noi e loro. Dovevamo chiudere quel passo per ricongiungerci e quando è successo non ci è sembrato vero.

Sono bimbi che hanno la pece negli occhi e il deserto sulla pelle. Sulla pelle, ma non nell’anima. Perché le nostre anime si sono ritrovate chiuse al sicuro in uno spazio protetto che è solo nostro.

Quest’estate al mare durante una passeggiata sulla battigia, il bagnino (senegalese) di una spiaggia privata, di quelli che “Non hanno voglia di lavorare, stanno tutto il giorno sulle panchine col cellulare”, ci ha fermati e ci ha detto che anche lui ha due figli, laggiù, lontano, dove il sole arde la pelle e i desideri, dove è difficile tirare su una famiglia, laggiù dove devi lasciare i figli ma pensi tutto il giorno a loro mentre stai sulla spiaggia e vedi gli altri papà che fanno il bagno coi loro bimbi e di notte, mentre fai il guardiano in un altro stabilimento, ti domandi se stanno bene, se dormono tranquilli la notte, anche senza il loro papà.

Poi ha regalato ai miei bimbi cinque euro per il gelato. E non c’è stato verso di dirgli che no, non era il caso che un ragazzo che lavora sulla spiaggia probabilmente in nero e certamente sotto pagato per un ventina di euro al giorno regalasse a noi i soldi per il gelato. Ma lui, Alessandro e Riccardo si sono guardati negli occhi e si sono intesi. Un abbraccio virtuale che è durato pochi istanti ma che sembrava infinito.

Ci sono momenti nella vita in cui si può solo stare a guardare. E imparare.

Nient’altro.

Perché quando cadi dagli alberi sui quali sei appollaiato per schiantare le tue certezze col culo, il tonfo che senti ti trapana il cervello fino a farti diventare sordo e cieco.

Perché la vita è fatta così. Di incredibile stronzate che fanno da timone di vita. Finché non sbatti le chiappe a terra e la botta di riposiziona il cervello al posto giusto, cioè in collegamento diretto col cuore, solo posti a sedere con Freccia Rossa, prenotazione obbligatoria.

“Vittime di violenza domestica: Ci sono molte più orecchie in ascolto: non pensiamo che non sia giusto impicciarsi o che ci siano cose più gravi a cui pensare. Possiamo fare la differenza anche cosi”.

ALLA FINE DI QUESTA CHIUSURA IN CASA AVREMO TUTTI BISOGNO DELLO PSICOLOGO?

La dottoressa Barbara Pischedda è psicologa drammaterapeuta. Ha esperienza decennale. Si occupa, tra le altre cose, anche di psicoeducativa per bambini e adolescenti con disturbi pervasivi dello sviluppo e dell’apprendimento.

Barbara Pischedda lavora in una cooperativa sociale che ha sede nell’area metropolitana di Cagliari. È un’amica con un delizioso accento sardo. È una bravissima professionista e sa fare i CULURGIONES e i GAMBERONI ALL’ARANCIA. Direi, insomma, che si intende delle cose principali della vita.

In questa intervista cercherà di spiegarci l’impatto del CORONA VIRUS nella nostra psiche e nella nostra socialità. Ma magari le strappo anche la ricetta dei gamberoni, vediamo. Videochiamata e il solito caffè virtualmente condiviso. Lei è strepitosa, vestita e truccata, di buon umore positivo e propositiva, come ti aspetti che debba essere dall’altra parte chi ti deve dare sia una mano sia delle risposte così difficili in un momento altrettanto difficile.

Barbara com’è cambiato il nostro modo di vivere? Quali sono le difficoltà che hai riscontrato maggiormente?

“Sai Laura, il mio lavoro consiste nel sostegno psicoeducativo a ragazzi con disturbi pervasivi o di apprendimento e alle loro famiglie. Spesso svolgo i miei interventi all’interno delle case di questi utenti in modo da programmare attività e esercizi in un ambiente sicuro e tranquillo. La situazione attuale mi impedisce di raggiungere i miei pazienti nelle loro case o di programmare attività in altri luoghi, quindi, dopo un primo momento di smarrimento, che ha colpito tutti, ho deciso di sperimentare il lavoro smart anche con loro.

E’ stata una vera e propria SCOMMESSA che per ora, insieme, stiamo tentando di vincere. Il problema sicuramente più ingombrante è stato accettare (sia da parte mia che da parte loro) il fatto che per un periodo non precisato di tempo il nostro rapporto sarebbe stato filtrato da un computer.

Ricordo che appena attivato un account Skype (che non possedevo) tutto è diventato TREMENDAMENTE REALE”.

Con che tipo di problematiche hai dovuto fare i conti?

“Per tutti noi è stato veramente impattante il cambio radicale della routine quotidiana e non solo.

Nello specifico, per utenti come i miei, le abitudini sono fondamentali, perché quando si convive con patologie così importanti il controllo delle attività da compiere all’interno della giornata ALLEVIA GRAN PARTE DELL’ANSIA. Quindi lavorare sull’accettazione e la creazione di nuove routine è fondamentale e mi sento di consigliarlo veramente a tutti”.

I tuoi pazienti più piccoli o più giovani capiscono e accettano questo “filtro” del computer? Un filtro abbastanza glaciale, immagino.

“Mentre gli adulti riescono a proseguire la terapia accettando la nuova metodologia, per i ragazzi la situazione rispetto agli incontri psicoeducativi è molto diversa: infatti vanno incoraggiati, incuriositi e tranquillizzati su più fronti. Con tanti di loro, una parte fondamentale è il CONTATTO: molti di loro durante i colloqui che si svolgevano di persona a casa loro, avevano bisogno ANCHE SOLO DI PRENDERMI LE MANI”. Se la conosco – e la conosco – la prima a soffrire di questo distanziamento fisico è lei, che si dedica ai pazienti con uno spirito quasi totalitario che alle volte le passa così tanto dolore da doversi fermare a respirare.

“Dobbiamo però capire che in futuro potrebbero consentirci di stare vicino ai nostri ragazzi in maniera costante. Piuttosto che cancellare degli incontri…” Quei puntini di sospensione separano la realtà forzata da quel sentimento che la spingerebbe a correre fisicamente dai suoi pazienti. Perché sa di essere – in alcuni casi – la sola forza di sopravvivenza. Lei è modesta e non lo ammetterà mai. Ma io so che è così. E anche i suoi pazienti, ne sono certa”.

Barbara, è già finito il tempo dei balconi?

“Un modo per alleviare il senso di ansia e di angoscia derivante dal fluttuare nella “bolla della quarantena” è quello di creare nuove routine e nuovi “appuntamenti” giornalieri: quindi ben vengano le schitarrate sui balconi o la musica a palla che riempie le vie …se ciò però ci fa star meglio.

Non bisogna essere parte di qualcosa solo perché le bacheche dei social ci invitano a partecipare. Se adesso i balconi sono meno animati rispetto a qualche settimana fa, è forse dovuto al fatto che le persone stanno ascoltando più se stesse e le loro ESIGENZE.

TROVIAMO IL NOSTRO RITO QUOTIDIANO CHE CI FA STARE MEGLIO.

Gli sbalzi d’umore sono la problematica più diffusa, proprio perché spesso l’isolamento amplifica le nostre emozioni, che non sono più diluite nei mille impegni quotidiani, e sono quindi dense e presenti.

Solo se impariamo ad ACCETTARE QUELLE NEGATIVE senza spaventarci possiamo DIMINUIRE il POTERE che hanno su di NOI.

Alla fine di questo periodo poi dovremo fare i conti con il riavvio che sarà lento e frustante.

Impariamo a fare nostra l’idea che la vita tornerà quella di prima molto lentamente e che avremo MOLTA PAURA DA SCROLLARCI DI DOSSO.

Nessuna fretta”.

Cosa c’è nel futuro, al termine di questa esperienza?

“Non sono una indovina e raramente mi piace fare previsioni, sicuramente però mi piace nutrire speranze.

Spero che almeno parte di tutto ciò che stiamo sperimentando resti dentro di noi.

Avere fiducia nelle nostre capacità di adattamento, apprezzare l’ ascolto di ciò che proviamo senza censurare le emozioni che normalmente ci mettono a disagio,RIDIMENSIONARE I PROBLEMI e trovare SOLUZIONI CREATIVE sono dei piccoli semi che possiamo decidere come impiegare nella nostra vita futura”.

Barbara, ci sono delle storie profondamente dolorose in questa pandemia, come perdere un famigliare senza potergli dire addio. Cosa comporta da un punto di vista psicologico?

“Quello del LUTTO è un argomento molto difficile – Barbara abbassa lo sguardo e la videocamera del computer perde il focus del suo sguardo – ognuno di noi ha ritmi diversi nell’elaborazione della perdita di una persona cara, ma sicuramente il rito del funerale, sia esso laico o religioso, ha una FUNZIONE IMPORTANTISSIMA.

Le persone che hanno perso un amico, un familiare o il proprio compagno a causa di questo virus avranno sicuramente un NODO EMOTIVO ancora STRETTO alla fine di questa quarantena”. Barbara riprende lo sguardo nelle telecamera e congiunge le mani, il tono è di comprensione per quel dolore che vede essere così profondo. Barbara è così. L’empatia è certamente la sua dote migliore, subito dopo la sua professionalità. Che preparata è preparata, ma l’empatia mi pare un dono eccezionale per chi fa la psicologa.

“Se conosciamo qualcuno che ha subito un lutto in queste circostanze offriamogli il nostro ascolto (se ne siamo in grado) e accogliamo le sue parole”.

Anche per te la domanda delle domande. Che tipo di problematiche possono insorgere in famiglie in cui sono già presenti dinamiche di tipo violento?

“Quando il primo decreto è stato annunciato il mio pensiero è andato subito ai SOGGETTI FRAGILI, VITTIME di violenze familiari che si sarebbero ritrovati con i loro AGUZZINI VENTIQUATTRO ORE SU VENTIQUATTRO”. Ora il tono è proprio partecipato, la voce rompe il tono melodico e diventa fermo e deciso. “Naturalmente una situazione del genere esacerba in maniera esponenziale la violenza domestica sia di tipo psicologico che di tipo fisico. Ma voglio dire due cose in merito a questo. UTILIZZIAMO I SOCIAL per ricordare che è sempre possibile DENUNCIARE LA VIOLENZA SUBITA anche in questo stato di emergenza, tutti infatti stiamo più tempo con il telefonino in mano e ogni volta che condividiamo un post che spiega come uscire da queste orribili situazioni una vittima lo legge.

Ci sono molte più orecchie in ascolto: non pensiamo che non sia giusto impicciarsi o che ci siano cose più gravi a cui pensare. Possiamo fare la differenza anche cosi”.

Un abbraccio virtuale ci costringe ai saluti. Io e Barbara alla distanza siamo abituate, lei tra i mari della Sardegna e il porceddu, io a Torino tra una Bicerin e le montagne che mi aspettano poco più in là. Eppure ci promettiamo di vederci presto, forse perché, alla fine, queste distanze imposte ci fanno desiderare di abbracciarci più spesso e ci fanno pentire dei mancati abbracci. O, forse, semplicemente, voglio che mi faccia i culurgiones e i gamberoni all’arancia. E lì non c’è skipe che tenga.

DA MADRE A MADRE

Questa è la foto che preferisco di mia madre. Perché c’è tutta mia madre in questa foto. Un sorriso ad occhi chiusi, non perché non voglia guardare alla vita, ma perché dietro le tendine delle sue palpebre c’è un mondo tutto suo oggi, fatto di ricordi di quando era bambina. E, così, nitidamente ricorda di quando al pomeriggio andava a ricamare dalle suore con la sua amica  Annetta e che si cuciva nelle tasche del cappotto zolle di zucchero nero da scambiare con le amiche perché le facessero i compiti di matematica, mentre lei andava a giocare all’aria aperta. O di quando le suore l’hanno punita, perché discola era discola eh – che solo a me ha raccomandato fai la brava e ascolta la maestra, ma lei ne combinava una più di Bertoldo – e per punizione l’hanno chiusa nella dispensa e lei si è mangiata una intera forma di mortadella.

In questa foto c’è tutta mia madre, col gilè che si è fata lei a mano a maglia, con l’abbraccio caldo di chi sa amare senza condizione, con quelle manone che ci ha impastato pucce alla spasa, panzerotti e orecchiette tutta una vita. Però con lo smalto, che ci ha sempre tenuto a essere pulita, elegante e ordinata, e la messa in piega, “lu capiddu” sempre a posto.

In questa foto mi pare che ci sia quello che purtroppo oggi, giorno dopo giorno, sta scivolando via. Per fortuna, il tempo scorre lentamente e io ho quella tregua mentale per abituarmi all’idea che i tuoi ricordi dell’altro ieri o dell’altro mese o dell’altro anno non sono così vivi come quelli della scorpacciata fraudolenta di mortadella. Che lo sai – ma non te lo ricordi –  che sono venuta anche quel Natale, che stavamo davanti al caminetto, tu già sulla sedia a rotelle, con uno scialle rosa addosso che avevi fatto tu a mano e mi raccontavi – guardandolo con malinconia – che non ti ricordi più come si fa quel punto, che però quando andavi all’Unitrè eri bravissima e i punti li sapevi fare tutti e che peccato che ora non lo sai più fare. Che peccato che non ti ricordi che sono venuta anche quella estate lì, quando ci siedevamo nella veranda al pomeriggio, dopo la controra, al fresco, aprendo la porta e aspettando la gente che passeggia al paese e quando passa ci saluta, che tu per prima andavi a salutare tutti i malati e gli anziani del paese, uno ad uno e ora la malata e l’anziana sei tu. Che peccato che ora mi chiedi spesso come si chiamano i miei bambini perché non te lo ricordi. Che peccato che, a volte, non ti ricordi che giorno sia e in che mese siamo.

Però. Però ti ricordi le cose importanti. Inaspettatamente. “Ai tuoi bambini piacciono molto le banane, vero? E giocare a zicca-zicca (a prendersi)”. E allora, il mio mondo di proiezione di mia madre passa istantaneamente da quella foto a quelle parole. In quelle parole c’è tutta mia madre. L’attenzione per le cose importanti: i dettagli del cuore.

E chi se ne frega se non sai che giorno è e che mese è.

È il giorno in cui ci siamo passate ancora un pezzo di vita, da madre a madre – solo al telefono – nell’attesa che tutto questo passi e parleremo ancora guardandoci negli occhi, delle cose che ricordi e di quelle che non ci sono più. E non ti stare a preoccupare dei punti della maglia, che te lo sto facendo io uno scialle nuovo.

Mi manchi, mà. Assai.

Laura P. Cavallo

Lauracavalloblog.wordpress.com

SIAMO ANGELI CON UN’ALA SOLTANTO E POSSIAMO VOLARE SOLO RESTANDO ABBRACCIATI.

La morte è sempre qualcosa con cui è duro avere a che fare, ma le morti respiratorie sono particolarmente brutte; ti feriscono profondamente, ti fanno a volte pensare che sia inutile combattere una battaglia con tanta differenza negli armamenti; ti scoraggiano, ti deprimono”.

Salvatore Cucco Marino è un medico impegnato nella lotta con il nemico del momento, nell’ospedale di Chivasso. È dirigente medico di chirurgia generale, si è specializzato in chirurgia generale all’università di Bologna, ha lavorato come chirurgo generale in Spagna, è Istruttore internazionale di chirurgia della parete addominale. Ma, soprattutto, Salvatore era un grande amico di mia sorella (medico anche lei ma che oggi non c’è più). Per la proprietà transitiva – e perché fa gli arancini più buoni di tutta la Sicilia – Salvatore è diventato pure amico mio.

Ci facciamo una videochiamata con tanto di caffè. Come va la famiglia, i figli, crescono? Sì crescono. Schiamazzi in sottofondo, mentre mi dedica il video-caffè e due chiacchiere tra un turno e l’altro.

Salvatore, come è cambiata la tua professione adesso?

“È completamente stravolta dalla pandemia. Il mio ospedale si è convertito in COVID Hospital. I medici come me, ma anche ortopedici, oculisti, sono stati quelli più colpiti dalla pandemia perché i nostri ambulatori sono stati chiusi e anche le sale operatorie, non possiamo più operare, salvo le gravissime urgenze e abbiamo dovuto riprendere in mano i libri di clinica medica”.

Cosa significa essere medici in reparti COVID oggi?

“I setting in cui lavoriamo sono particolarmente complessi: indossare le tute impermeabili e tutti i dispositivi di protezione di cui, fortunatamente, adesso disponiamo, per 10-12 ore al giorno è difficile; gli indumenti non lasciano traspirare, per cui è come se fossimo dentro una sauna; allo stesso modo, le mascherine ad alta protezione, che sigillano bocca e naso, creano dei microambienti ricchi di anidride carbonica, che inevitabilmente respiriamo: ciò ci provoca una cefalea continua ed un senso di stordimento contro cui dobbiamo costantemente combattere. Ma per fortuna li abbiamo: combattere senza protezioni adeguate, come purtroppo è successo durante le prime settimane di pandemia un po’ in tutto il Paese, ci esporrebbe ad un rischio altissimo di infezione; tra l’altro, la carica virale degli ambienti di ricovero dei pazienti COVID è altissima, e non pochi colleghi si sono ammalati in modo molto grave; 61 sono morti. A parte questo, lavorare senza dispositivi di protezione ci trasformerebbe in veri e propri untori, pronti ad infettare le nostre famiglie e chiunque sia in contatto con noi”.

Salvatore, che significa avere a che fare – come medico ma anche come uomo – con la morte di questi pazienti e con i loro parenti?

Salvatore posa la tazzina e nonostante la freddezza della video chiamata, percepisco che si è rabbuiato all’improvviso e sento dal microfono un sospiro allungato. Si incupisce che vorrei prendergli le mani, ma non posso. “Noi medici, soprattutto quelli ospedalieri, dobbiamo fare i conti con la morte costantemente. Si tratta di situazioni emotive estreme. La morte dei pazienti con COVID interviene in genere per complicanze respiratorie: i pazienti sviluppano delle forme di polmoniti molto estese, che rendono la loro respirazione via via più difficile, fino a non riuscire più a respirare”. Un altro sospiro. Mi sto domandando quante volte in questi giorni avrà dovuto spiegarlo ai parenti delle vittime. Aspetto a fare la domanda successiva. Se ci fossimo visti, sarebbe stato a casa mia e gli avrei offerto un pezzo di parmigiana anche alle 11 di mattina e lui gli arancini della sera prima, che sono anche più buoni. Perché noi meridionali siamo fatti così. Mettiamo il cibo tra noi e le nostre feste, ma anche tra noi e le nostre paure.

È lui che riparte. Ha voglia di raccontare la sua storia perché è provato, stanco e forse per lui questa intervista è anche liberatoria. “Non ti abitui all’idea della morte neanche dopo vent’anni di professione. “I parenti dei morti di COVID non possono neanche visitare le salme dei loro defunti e trattenerli è difficilissimo: tu sei il muro tra loro e una persona amata che ora non c’è più, devi riuscire a calmarli, anche assorbendo la loro rabbia, la loro frustrazione, la disperazione. Sono traumi molto difficili da elaborare, e non puoi neanche fermarti e tirare il fiato, perché il lavoro non si ferma. In molti avremo bisogno, al termine di questa storia, di un supporto psicologico”.

Adesso è proprio triste. Lo so anche io che con la morte non si fa mai pace. Quando alcuni anni fa un male incurabile si portò via mia sorella, l’avevo capito. Ci scambiamo quello stesso sguardo di allora, misto tra il disarmato e l’incazzato. Ma che vuoi farci, la vita è fatta così, sembriamo dirci in una conversazione muta fatta solo di intese.

Salvatore, oggi i medici sono gli eroi. Non era così fino a ieri, cosa è realmente cambiato?

Una mano gli sporge un’altra tazzina di caffè. Non deve avere dormito molto la notte passata e probabilmente si prepara a un altro turno lungo e pesante, fisicamente e psicologicamente. “L’uomo è estremamente volubile – il video del computer mi rimanda uno sguardo severo adesso – Oggi siamo gli eroi, gli angeli in camice bianco, ma siamo esattamente le stesse persone, gli stessi professionisti che fino a ieri venivano insultati, malmenati, denunciati. La pandemia non ha cambiato il nostro modo di lavorare: siamo sempre gli stessi, sempre con la stessa attenzione e professionalità verso i pazienti. Spesso non si considera la nostra natura umana; non si pensa che, dopo 12 ore di lavoro, possiamo essere stanchi, stressati, affamati, magari tristi perché la mattina, quando usciamo, i nostri figli ancora dormono e la sera, quando torniamo a casa, si sono già addormentati”.

Credi che la vostra eroicità non durerà a lungo?

“Già ci sono state denunce da parte di familiari di pazienti deceduti per COVID. Spero che la pandemia, una volta risolta, crei un vero e proprio spartiacque in questo Paese, crei un “prima” e un “dopo”. Vivere isolati ti fa riflettere; ti fa capire quali siano le cose superflue o addirittura dannose, e quali quelle davvero essenziali. La salute è una di queste: e, attenzione, la salute è un diritto, ma non è scontata, è quanto di più fragile e meno ovvio esista. Permettimi di dire che i medici italiani sono tra i migliori al mondo: facciamo autentici miracoli con poco o niente, perché il definanziamento del nostro SSN negli ultimi decenni è stato feroce.

Eppure è noto da anni che le pandemie sono il principale rischio globale a cui oggi possiamo andare incontro.

“Ed ogni ospedale è dotato di piani per le maxicatastrofi, che però sono, appunto… solo piani. Carta stampata, null’altro. Un evento come la COVID è stata in grado di sommergere il SSN, e se non fosse stato per l’energia e la determinazione dei medici e degli infermieri italiani questa catastrofe avrebbe potuto assumere contorni ancora più gravi”.

La desolazione nelle parole è disarmante. Ma gliela faccio lo stesso la domanda delle domande.

Salvatore, ce la faremo?

Forse la faccio per me questa domanda, perché ho bisogno di qualcuno che mi rassicuri. “Il futuro è nelle nostre mani. Gli Italiani devono metabolizzare questa cosa, farla propria, e farne una bandiera. L’epidemia finirà, anche grazie allo straordinario sforzo scientifico e di identificazione di nuove terapie per cui i medici italiani sono, oggi, sulla vetta del mondo. Finirà, e i danni saranno contenuti, lavoriamo 24 ore al giorno per questo: LA GUERRA, ANCHE SE L’ABBIAMO FATTA CON LE SCARPE DI CARTONE, LA VINCEREMO.

Finisce l’ultimo sorso di caffè probabilmente ormai freddo e vedo che guarda l’orologio, mi comunica infatti che da lì a poco deve rimettersi in corsia.

L’ultima cosa Salvatore. Che ti senti di augurare ai pazienti COVID e ai familiari?

Salvatore si avvicina al video e mi compare il suo faccione pieno di speranza. Mi ha detto le peggio tragedie e ora mi sorride rubicondo e mi abbraccerebbe se fossimo vicini e potessimo farlo. Salvatore è fatto così. L’umanità del medico fatta a persona. “Auguro a tutti i pazienti ed ai loro familiari di riabbracciarsi presto. La solitudine è stata la cifra di questi giorni. Forse dovremmo riflettere su quanto i nostri atteggiamenti quotidiani ci rendessero soli nella vita “prima”; e quanto questo ci abbia inaridito. Abbiamo bisogno gli uni degli altri per poter progredire: come scrisse l’indimenticato Luciano De Crescenzo Siamo angeli con un’ala soltanto e possiamo volare solo restando abbracciati”.

Non posso aggiungere altro e lo saluto. Ciao Salvatore e un grazie personale. Ancora un volta.

Vorrei essere un eroe cinico e non convenzionale, ma giusto come Montalbano; vorrei essere sarcastica e sensibile come Margherita Dolcevita; vorrei essere dotata del buon senso di Miss Marple.Perché il mondo che ci circonda è complicato. Io non mi raccapezzo più.I preti in tv scovano i delinquenti, nella vita alcuni sono implicati in storie di pedofilia. Mi guardo intorno e vedo quarantenni con l’apparecchio ai denti e bambini che fanno conference call con l’i pad.Se vuoi parlare con un amico lo puoi taggare, uozzappare, messaggiare, ma guai se gli chiedi di andare amangiare una pizza, perché è vegano o celiaco. Non mangiamo l’agnello a Pasqua ma si scofaniamo 7/8 vacche in un anno.Se rinasco, il contratto stavolta lo scrivo io. Abbiamo fatto tutti come in banca. – “Firmi lì, lì’ e lì”. E abbiamo firmato tutti senza leggere manco una parola.Buona Pasqua scioperati.

Non ricordo che giorno sia dalla trincea. Però è il giorno in cui ho fatto il lievito madre e sto pensando di fare anche il sapone in casa. Cerco di non pensare al fatto che invochiamo la restrizione delle libertà personali e l’esercito nelle strade perché di solito i film sugli zombie cominciano così. Fino all’entrata in vigore della legge marziale e la gente che si spara dai balconi. Altro che flash mob e “Azzurrooooo”. Marito gira per casa da giorni scuotendo la testa e dicendo una sola cosa. Una. Sola. Ficcante. Incisiva: “Eh, va beh”. Altro che i pipponi di Gigi Marzullo. Il suo concetto filosofico sul modo di vivere questi giorni si riassume in un pensiero in cui c’è tutto. Rassegnazione e scazzo. I miei bimbi salutano dal balcone la gente passare, io dal balcone saluto la mia vicina e le sorrido, ma in realtà ho lo sguardo che è un incrocio tra quello di James Stewart in “Una finestra sul cortile” e “Carrie lo sguardo di Satana”. Mio marito guarda fuori dal balcone e dice “eh va beh”.
Freddy – il nostro amico immaginario – è l’unico che sta tenendo botta.
Mi mancano la vitamina D, le passeggiate sul lago, i pettegolezzi da portineria con la mia amica. Mi manca persino mia suocera, ma d’altra parte vedo anche la Madonna di Pompei che mi sta rinfrescando il lievito madre, per cui non mi preoccupo più del necessario.
Aspetto una data. Perché siamo abituati a questo. A contare il tempo, a rispettare le scadenze, a pagare le bollette “in tempo”, siamo abituati alle sveglie e al ritmo giorno-notte. Ci irrita e ci esaurisce la mancanza di questo ritmo, ci irrita la percezione che tutto sia rallentato e distante. Mica la distanza in sé e per sé.